Quando si parla di Another End del regista Piero Messina, è quasi necessario iniziare dal suo finale. Ma solo per dire che il suo epilogo non è dissimile da quello del Sesto senso di M. Night Shyamalan, per il modo in cui conferisce un significato retroattivo alla trama e, molto probabilmente, vi lascerà a bocca aperta. Rivelare di più significherebbe rovinare questo film di fantascienza, tanto colpevole di dialoghi troppo sentimentali quanto meticoloso nel rivelare le regole del suo mondo poco a poco. Il colpo di scena dell’ultimo minuto della sceneggiatura è così sorprendente da far dimenticare gli elementi banali che strutturano il film.

L’atmosfera di Another End ci dice fin dall’inizio che il mondo è diventato una penombra perpetua. I suoi abitanti sembrano disaffezionati, se non addirittura depressi. Questo è certamente il caso di Sal (Gael García Bernal), che entra nell’appartamento dell’anziana vicina per aggiustarle la doccia con uno sguardo di completa apatia e non batte ciglio quando degli uomini entrano casualmente nella stanza per portare via il corpo del marito della vicina in quello che sembra un sacco per cadaveri.

Come si scopre, la ragione dell’inquietudine di questo mondo ha a che fare con l’onnipresenza di una tecnologia, creata dalla società titolare, che instilla i ricordi dei defunti in “ospiti” consenzienti, in modo da fornire conforto alle persone in lutto.

Nel mondo di Another End, il prestito temporaneo del proprio corpo per queste pratiche è banale come la donazione di plasma, in particolare, sembra, per il sottoproletariato e le persone emotivamente indigenti.

Eppure, si percepisce – perché questo è un film non proprio esaltante – che la maggior parte degli ospiti non presta volentieri il proprio corpo solo per denaro, ma per allontanare i propri demoni e non doversi togliere la vita.

Per quanto riguarda i dettagli della procedura, l’ospite viene impiantato con i ricordi di una persona morta per un periodo di tempo specifico, durante il quale interagisce con la famiglia del defunto senza essere in grado di ricordare che, in realtà, è un’altra persona.

Durante queste sessioni, l’ospite crede davvero di essere il defunto e di non essere ancora morto. È quindi opportuno che la famiglia si comporti come se non ci fosse alcuna discrepanza fisica tra il corpo originale del proprio caro e quello dell’ospite.

L’idea è che l’ospite aiuti la famiglia nel processo di lutto, permettendole di passare un po’ più di tempo con la persona morta prima di dirle addio per sempre.

Il coinvolgimento di Sal è molto più profondo di quello a cui assiste nell’appartamento del vicino. Sua sorella, Ebe (Bérénice Bejo), lavora per Another End e continua a cercare di convincerlo a partecipare alle sedute con un ospite ritenuto “compatibile” con la sua ragazza, morta di recente in un incidente stradale mentre Sal era al volante.

Sal è riluttante ma alla fine cede, ed è allo stesso tempo sconvolto e affascinato dal tempo che trascorre con Zoe (Renate Reinsve), durante il quale deve fingere che la sua ragazza non sia mai morta, perché se Zoe inizia a dubitare che sia davvero lei la ragazza, l’intero esperimento si interrompe definitivamente

Il DNA della trama di Un’altra vita è riconducibile a diversi film degni di nota, tra cui Alps di Yorgos Lanthimos, in cui degli sconosciuti recitano nei panni di un defunto recente per aiutare la famiglia a superare il lutto, e Infinity Pool di Brandon Cronenberg, in cui una tecnologia che crea repliche esatte di stranieri che si mettono nei guai con la legge viene utilizzata per punire il manichino e lasciare che lo straniero se la cavi senza problemi.

Ma ciò che distingue il film di Messina è il fatto che la realtà materiale del corpo è resa quasi irrilevante nel processo di lutto o di finzione.

Il film, scritto da Messina, Giacomo Bendotti e Valentina Gaddi, frustra quanto affascina per il modo in cui lascia in sospeso ogni sorta di domanda senza risposta. Per esempio, una persona è viva se i suoi ricordi possono essere mobilitati da qualcun altro, o solo se corpo e mente esistono come un tutt’uno? Ma una volta che il finale è scioccante, Another End getta tenacemente una rete di implicazioni su ciò che è venuto prima, e in modi che sono ossessionanti.

Il film di Messina ci fa riflettere sul potenziale della tecnologia al suo centro di lasciare una traccia – un’impronta irrevocabile – sulla psiche dell’ospite, prima di metterci alle prese con questioni più esistenziali.

Se non esiste l'”essere”, perché siamo tutti schermi fungibili per le proiezioni di qualcun altro, vale la pena vivere?

Nonostante la sua traiettoria inizialmente familiare, Another End ci travolge in modo disarmante e intenzionale su un’onda di apatia non dissimile da quella che affligge Sal, mettendo in discussione il nostro senso di chi siamo fondamentalmente come esseri umani.

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