Non solo non è all’altezza dell’eredità de ‘La casa di Carta’, ma inciampa, cade e si butta a capofitto in una fossa di mediocrità.
Nella grande tradizione degli spin-off che non avrebbero mai dovuto vedere la luce, venerdì sera è arrivata sulla piattaforma Netflix ‘Berlino’, prequel dell’acclamato ‘La casa d carta’. Tentando di approfondire gli anni di gloria dell’enigmatico Berlino, interpretato con una certa finezza da Pedro Alonso. La serie di 10 episodi è illogica come la trama stessa e un miscuglio disordinato di elementi riciclati, che avalla temi problematici senza alcun accenno di autoconsapevolezza.
La trama: una masterclass in coincidenze
Ambientato nell’era pre-casa di carta, Berlino decide che è giunto il momento di mostrare la sua genialità rubando gioielli per un valore di 44 milioni di euro dal caveau di una banca parigina. Cosa potrebbe andare storto? A quanto pare, non molto nel mondo di Berlin. La trama si svolge con la precisione di un ubriaco che inciampa in un campo di bucce di banana, affidandosi alla fortuna piuttosto che a una parvenza di piano ben congegnato.
In un’incredibile dimostrazione di originalità, la serie prende spudoratamente in prestito personaggi e ruoli dalla serie madre, come se sperasse che non ce ne accorgessimo. Oltre a Berlino, il gruppo è composto da un genio contemplativo ma sobrio, che funge da forza intellettuale (incarnato da Tristán Ulloa nel ruolo di Damián, una controparte anziana e occhialuta del Professore di Álvaro Morte), un individuo carismatico ma dall’animo semplice (Joel Sánchez nel ruolo di Bruce, una versione meno sfumata del Denver di Jaime Lorente), e un’avventuriera perseguitata da una precedente relazione (Begoña Vargas, apparentemente destinata a una delusione, visto che il suo personaggio, Camerón, rispecchia da vicino la Tokyo di Úrsula Corberó).
I parallelismi nella serie sono apertamente riconosciuti e i personaggi non sono tutti poco originali; un esempio è Keila (interpretata da Michelle Jenner), una nuova e particolare aggiunta come timida hacker. Tuttavia, è un po’ uno scherzo interno il fatto che un personaggio, Roi (interpretato da Julio Peña Fernández), abbia un nome che è un anagramma di Rio, il personaggio interpretato da Miguel Herrán nella serie originale.
È un lavoro di taglia e incolla che lascia il dubbio se i creatori, Álex Pina e Esther Martínez Lobato, avessero una scadenza ravvicinata o se avessero scelto la strada della pigrizia per divertirsi.
Misoginia scatenata
Se c’è una cosa in cui Berlino è coerente, è la sua approvazione del comportamento misogino. I personaggi femminili, purtroppo, ricadono negli stanchi tropi dell’ingenuità, dell’attrazione irresistibile per gli uomini che li circondano e dell’incapacità di pensare chiaramente quando entrano in gioco l’amore e il desiderio.
Il tentativo dello show di discutere di misoginia e sessismo è come mettere un cerotto su una ferita aperta: non fa sparire il problema, ma fa trasalire. È come se gli sceneggiatori pensassero che lanciare parole come “misoginia” e “sessismo” avrebbe fatto sembrare la serie consapevole del problema, ma alla fine è come se volessero dire: “Sappiamo che è sbagliato, ma facciamolo lo stesso”.
Pedro Alonso: appassionato di caos
Tra le macerie di trame sbagliate e scelte di personaggi discutibili, Pedro Alonso emerge come la grazia salvifica di Berlino. Il suo ritratto di Berlino mostra un personaggio che prospera sul caos e sull’adrenalina, ricordandoci la brillantezza di cui si può essere testimoni nella Casa di carta. L’interpretazione di Alonso ha iniettato la vita in una serie che cercava disperatamente la sostanza.
In effetti, l’unico elemento “degno di nota” della serie è il cast d’insieme. Sebbene la trama sia più piatta di una frittella lasciata al sole, il cast riesce a salvare un po’ di orgoglio per Berlino. Le loro interpretazioni sono piene di energia e di momenti di autentica sintonia, e forniscono un occasionale sollievo dagli sbadigli provocati dalla tediosa narrazione.
In conclusione: Un film lento e privo di importanza
Berlino non solo non è all’altezza dell’eredità della Casa di Carta, ma inciampa, cade e si butta a capofitto in una fossa di mediocrità. Il tentativo di umanizzare Berlino si ritorce contro in modo spettacolare, lasciandoci con uno studio del personaggio che manca di profondità e di scopo. Quella che avrebbe potuto essere un’interessante esplorazione di un personaggio oscuro si trasforma in una rapina con passi falsi, avallando temi discutibili e affidandosi alle coincidenze come a una stampella.