“Suscitando una sensazione mondiale negli anni ’60, l’eredità degli spaghetti western può essere attribuita a un uomo di Roma: Sergio Leone”.

1862, frontiera americana: Un uomo di bell’aspetto, con un poncho e un cappello da cowboy, entra lentamente in un vicolo pieno di ciottoli, circondato da lapidi inclinate, immerso nel selvaggio west polveroso. Lo seguono altri due uomini, che si guardano con sospetto. Duecentomila dollari in oro giacciono nascosti sotto una delle lapidi che li circondano. Solo uno di loro conosce il luogo esatto. Hanno viaggiato a lungo per arrivare qui, combattendo battaglie e imbracciando fucili nel caos della guerra civile americana. Uno di loro riuscirà a impossessarsi del tesoro; gli altri due dovranno morire. Noi lo sappiamo. Lo sanno anche loro. Lentamente si allontanano l’uno dall’altro, con le pistole pronte. Fermi, aspettano la prossima mossa. Una melodia di tromba sbarazzina e piena di suspense si sviluppa. Un corvo gracchia in lontananza. La tensione è palpabile. E poi, all’improvviso: BANG! Un colpo, uno solo, colpisce il bersaglio…

Il finale de Il buono, il brutto e il cattivo (1966) – con la sua fotografia ravvicinata, la colonna sonora e l’ambientazione – è una delle scene più memorabili non solo del cosiddetto genere Spaghetti Western, ma della storia del cinema. Suscitando una sensazione mondiale negli anni ’60, l’eredità degli spaghetti western può essere attribuita a un uomo di Roma: Sergio Leone.

Figlio di un regista e di un’attrice del cinema muto, Leone crebbe a Cinecittà e, all’età di 20 anni, iniziò a lavorare come assistente tecnico in diversi film di cappa e spada (epopee storiche e mitologiche ambientate nell’antichità greco-romana), tra cui le celebri produzioni americane Quo Vadis (1951) e Ben Hur (1959).

Verso la fine degli anni Cinquanta, quando Leone si rese conto che le epopee storiche erano diventate banali e stavano perdendo il favore del pubblico, si rivolse alla sua passione per i film western (popolari in Italia durante il dopoguerra, quando la cultura americana aveva avuto il suo picco d’influenza) – un territorio cinematografico inesplorato nell’Italia dell’epoca. Il sottogenere “cappa e spada” aveva visto gli americani rievocare l’Antica Roma a Cinecittà, ma quando Leone iniziò ad appropriarsi del Far West, i ruoli si invertirono e gli italiani iniziarono a ricreare la frontiera americana del XIX secolo in quegli stessi studios e nei paesaggi aridi più simili al deserto americano: Italia meridionale, Spagna e Jugoslavia.

Ma l’imitazione dell’America andava ben oltre la scelta delle location: i western italiani intendevano confondere gli acquirenti dell’industria cinematografica, spacciando le produzioni italiane a basso costo per quelle americane (rendendo i loro prodotti più appetibili per l’industria dominata dagli Stati Uniti). I nomi di attori e registi italiani venivano anglicizzati nei titoli di testa dei film: Sergio Leone era spesso accreditato come “Bob Robertson”, l’attore Giuliano Gemma come “Montgomery Wood”. Ma il trucco non durò a lungo. Non troppo cortesemente, i film vennero soprannominati con condiscendenza “Spaghetti Western” dai critici cinematografici per rivelare le loro vere origini.

Oltre alla strategia commerciale di emulare il sistema americano per infiltrarsi in esso, i riferimenti culturali degli spaghetti western – le loro stesse radici – affondano in altri generi. I film riadattano in gran parte le linee narrative dei peplum e si ispirano ai drammi dei samurai giapponesi, molto simili sia per le trame avventurose che per la mascolinità tossica dei personaggi. L’uomo di poche parole e dall’etica particolare, sempre pronto a premere il grilletto e a non sbagliare mai un colpo, è un tropo di questo genere. Come I magnifici sette (1960) di John Sturges è basato sul capolavoro di Akira Kurosawa Sette samurai (1954), Un pugno di dollari (1964) di Leone rispecchia da vicino Yojimbo (1961) di Kurosawa.

Un pugno di dollari, il primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro di Leone – gli ultimi due dei quali sono Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966) – ha dato il via alla fama del regista come pioniere dello Spaghetti Western. La trilogia ha come protagonista “l’uomo senza nome”, un misterioso personaggio con poncho a fantasia e cappello marrone interpretato da Clint Eastwood, che all’epoca era completamente sconosciuto al pubblico, probabilmente per un motivo. Parlando del casting per Un pugno di dollari, Leone ha ricordato che: “Avevo bisogno di una maschera più che di un attore, e Eastwood all’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello”. Cappello o no, nei pochi anni degli anni ’60 che videro la massima popolarità del genere, Eastwood riuscì a farsi un nome come attore capace e divenne l’antieroe archetipico di un’intera generazione di ragazzi.

Un pugno di dollari fu un grande successo al botteghino. Lo stile visivo distinto di Leone, fatto di primi piani estremi e pause enfatiche, si rivelò incredibilmente popolare e gli spaghetti western acquisirono molto rapidamente una propria identità e autonomia estetica. I nuovi film complicarono la psicologia dei personaggi del western tradizionale, distaccandosi dalla retorica semplicistica delle loro controparti americane. Negli Spaghetti Western, anche i “buoni” sono protagonisti spietati, moralmente discutibili, che mettono gli uni contro gli altri per ottenere vantaggi personali.

Ma direi che il contributo più originale del genere alla storia del cinema non proviene dalla cinematografia né dalla sceneggiatura. Viene dalla musica. E dal genio di un solo compositore: Ennio Morricone. Quando Morricone fu invitato a lavorare alla colonna sonora di Per un pugno di dollari, stava già arrangiando e scrivendo musica per alcuni dei cantanti più alla moda dell’epoca, tra cui Paul Anka, Mina e Gianni Morandi. Morricone ha mescolato cultura alta e bassa in pietre miliari della musica pop come “Pinne, Fucili ed Occhiali” di Edoardo Vianello, “Sapore di Sale” di Gino Paoli e “Se Telefonando” di Mina. Il sodalizio con Leone diede carta bianca a Morricone e il compositore inventò un linguaggio del tutto nuovo che andava da Bach all’atonalità e alla musica sperimentale. È per gli Spaghetti Western che Morricone ha inventato alcuni dei suoi arrangiamenti ed effetti più originali: fischi ipnotici, chitarre frenetiche, vocalizzazioni, cori epici, il suono di sferzate, incudini, campane e quegli inconfondibili battiti di tromba!

E poi, con la stessa rapidità con cui erano diventati popolari, gli spaghetti western svanirono. Gli anni senza precedenti del miracolo economico italiano stavano perdendo terreno a favore delle turbolenze generali, delle contestazioni del 1968 e degli anni bui segnati dagli attentati terroristici. Lo stile giocoso di quei film non rispondeva più alle esigenze di una società in rapida evoluzione, per la quale il puro intrattenimento non era più sufficiente. Ma prima che il genere si estinguesse del tutto, alcuni registi riuscirono ad aggiungere contenuti all’umore mutevole dell’epoca. Django (1966) di Sergio Corbucci, che ha dato origine a oltre 30 sequel, e Il grande silenzio (1968), interamente girato nella neve delle Dolomiti, hanno complicato il genere Spaghetti Western con film estremamente violenti e con oscure allegorie politiche.

In effetti, anche C’era una volta il West (1968) di Leone, considerato il gran finale dello spaghetti western, potrebbe essere letto come un’allegoria. Il film portò il genere a una scala epica senza precedenti, dopo la quale divenne probabilmente difficile aggiungere qualcosa di originale ai suoi temi. Leone doveva esserne pienamente consapevole. L’ultima sequenza del film mostra decine di uomini che domano l’inospitale paesaggio del West americano costruendo una ferrovia. Accompagnato dalla musica intensamente malinconica di Morricone, il pericoloso mondo dei fuorilegge popolato da “uomini senza nome” viene regolato e sconfitto dalla modernità: Il “selvaggio West” si trasforma semplicemente in “il West”.

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