“Una figlia” è un film intenso e spietato che conferma la sensibilità sociale e psicologica di Ivano De Matteo, già noto per opere come Gli equilibristi e I nostri ragazzi. Con questo lavoro, De Matteo torna a esplorare il nucleo familiare italiano, scavando nei suoi fragili equilibri e nei suoi drammi più profondi, questa volta attraverso il filtro del rapporto genitori-figlia nell’era dei social network e della reputazione pubblica.


I personaggi principali e le loro dinamiche

Stella (Benedetta Porcaroli) è la giovane protagonista: una ragazza apparentemente equilibrata, dolce, educata, figlia unica di due genitori borghesi. La sua vita tranquilla viene sconvolta da un gesto impulsivo: la condivisione di un video intimo che finirà per devastare la sua reputazione e il suo rapporto con il mondo esterno. Stella è costruita come un personaggio profondamente umano, vulnerabile, mai ridotto a stereotipo: il film la segue non tanto come “vittima”, ma come persona che cerca disperatamente di riaffermare la propria identità.

Alberto (Edoardo Leo), il padre, è un avvocato di successo, orgoglioso, protettivo e incapace di accettare l’onta pubblica che si abbatte sulla famiglia. Con lui De Matteo rappresenta l’ipocrisia e la fragilità maschile: Alberto vuole “salvare” la figlia, ma in fondo è più ossessionato dalla perdita del proprio onore sociale che dal dolore reale della ragazza.

Elena (Maya Sansa), la madre, è invece il personaggio più empatico e tragico: combattuta tra il senso di colpa per non aver protetto abbastanza Stella e l’impossibilità di contrastare l’ondata di giudizio che travolge la famiglia. La sua figura è delicatamente tratteggiata: non è una madre perfetta, ma è l’unica che riesce davvero a vedere la figlia oltre l’errore commesso.

Il cuore del film è proprio nelle dinamiche fra questi tre: il senso di colpa, la rabbia, la vergogna, ma anche il disperato tentativo di mantenere una parvenza di normalità in una situazione ormai fuori controllo.


Analisi tematica

“Una figlia” affronta con lucidità temi centrali come il potere distruttivo dell’immagine, il giudizio collettivo amplificato dai social media, il concetto di onore nell’Italia contemporanea, ancora troppo legato a visioni patriarcali. De Matteo racconta la solitudine dell’individuo di fronte alla macchina del discredito pubblico, ma anche la difficoltà di comunicare all’interno delle famiglie moderne, troppo spesso incapaci di gestire la fragilità dei legami affettivi.

Il film non si limita a denunciare: osserva, ascolta, mette a nudo le contraddizioni di un’epoca dove l’identità è sempre più esposta, sempre più vulnerabile.


Lo stile registico

Lo stile di Ivano De Matteo è asciutto, nervoso, aderente ai personaggi. La regia è priva di orpelli: camera a mano nei momenti più tesi, lunghi piani sequenza per far respirare il disagio, fotografia livida e naturale che contribuisce a restituire un senso di verità quasi documentaristica. I silenzi sono pesanti quanto i dialoghi: ogni parola sembra pesata, ogni sguardo è carico di sottotesti.

De Matteo non giudica mai i suoi personaggi, anche nei loro momenti peggiori: li osserva con pietà e con una cruda onestà, lasciando che siano gli spettatori a tirare le proprie conclusioni. Questo approccio aumenta il coinvolgimento emotivo e rende “Una figlia” un film necessario, capace di colpire al cuore senza mai risultare ricattatorio o didascalico.

Ivano De Matteo è da anni uno degli osservatori più acuti delle dinamiche familiari italiane contemporanee. Fin dai suoi esordi (La bella gente, 2009), il suo cinema è caratterizzato da uno sguardo impietoso ma sempre umano sui rapporti interpersonali, specie quelli borghesi, smascherandone l’ipocrisia, la paura del giudizio sociale e la violenza latente sotto l’apparente rispettabilità.

In Gli equilibristi (2012) aveva raccontato la progressiva marginalizzazione di un uomo separato che, a causa della precarietà economica, perdeva tutto. In I nostri ragazzi (2014), ispirato a La cena di Herman Koch, aveva scavato nei segreti di due famiglie borghesi travolte dalla violenza dei propri figli, mentre in La vita possibile (2016) aveva esplorato l’amicizia e la solidarietà tra donne di fronte alla violenza domestica.

Con Una figlia, De Matteo prosegue questa traiettoria, ma affina ulteriormente il suo discorso: se nei film precedenti l’accento era posto soprattutto sugli adulti e sui loro fallimenti, qui è la prospettiva dei giovani (e in particolare delle ragazze) a essere centrale.
La “colpa” della protagonista è minuscola, umanissima — ma il mondo esterno la trasforma in una condanna perpetua, mostrando un’Italia ancora profondamente patriarcale, pronta a giudicare e a distruggere.

Rispetto ai lavori precedenti, Una figlia si distingue anche per una maggiore asciuttezza narrativa: pochi personaggi, pochi luoghi, una struttura quasi teatrale, che amplifica l’intensità emotiva della storia. È come se De Matteo avesse deciso di togliere tutto il superfluo per concentrarsi solo sull’essenziale: il dolore, il senso di colpa, l’amore familiare che cerca disperatamente una via di salvezza.

In questo senso, Una figlia rappresenta una maturazione del suo cinema: un film ancora più duro, ma anche più intimo, dove la denuncia sociale e l’indagine psicologica si fondono in maniera inscindibile.

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