Clint Eastwood si mette in discussione e lo fa a 94 anni appena compiuti.
Vi accorgerete ben presto, durante la visione, che le dinamiche del film sono davvero molto simili a quelle di un capolavoro della storia del cinema: La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet.
In un primo momento verrebbe quasi da innervosirsi, chiedersi che senso abbia guardare un film del quale conosciamo già la trama e del quale esiste già un remake (che tra i membri del cast vantava anche Jack Lemmon e James Gandolfini). Andando avanti nella visione però, ci si ricorda che questo è pur sempre un film di Clint Eastwood, un film di chi ci ha volutamente messi davanti ad uno schema familiare per mostrarci qualcosa che potremmo non aver mai notato.
Al posto di Henry Fonda troviamo Nicholas Hoult, che interpreta un giovane giornalista e membro numero 2 della giuria. Il processo vede James, un ragazzo con un torbido passato nella criminalità organizzata, accusato dell’omicidio della sua ex ragazza. Jennifer viene ritrovata in un burrone, nei pressi di un bar in cui i due erano stati visti litigare. Tutto sembrerebbe portare a James, tutto tranne i ricordi del nostro giurato numero 2.
La sensazione è che il regista non volesse creare un film perfetto, una sua idea di capolavoro o qualcosa di simile a Megalopolis per Coppola, ma una pellicola in grado di instillare un bacillo nello spettatore. Questo spettatore sarebbe andato a casa, si sarebbe messo a letto in un modo e risvegliato in un altro, forse più consapevole del mondo in cui si trova.
Tutto quello che abbiamo bisogno di sapere sul protagonista ci viene detto quasi subito, il tempo rimanente viene impiegato per compiere una lunga indagine attraverso la macchina da presa.
Una sorta di lunga riflessione sull’umano e sulle sue sfaccettature. Il nostro protagonista, infatti, oscilla perennemente tra la figura di eroe ed il suo contrario: sa che dovrebbe parlare con la polizia e che James non è colpevole, prova anche ad aiutarlo e a convincere la giuria dell’innocenza del ragazzo. Ma con il passare del tempo qualcosa si incrina e i dubbi aumentano. Perché rovinare altre vite? L’imputato è il colpevole perfetto, a chi importa davvero sapere se egli sia il vero colpevole?

La verità è manipolabile e spesso non coincide con la giustizia. Girare un film del genere in un momento così particolare della storia americana? Una provocazione che solo un uomo come lui, che non ha più nulla da perdere, poteva permettersi di fare. Siamo in un periodo complesso, in cui diventa difficile fidarsi di chiunque, anche di chi dovrebbe pensare al bene comune. Gli eroi non esistono più e nemmeno quel famoso “oltre ogni ragionevole dubbio”. I dubbi ci sono, ci saranno sempre, ma dobbiamo continuare a lottare. Smettere di cercare la verità sarebbe come smettere di respirare perché prima o poi dovremo morire. Ecco che allora, proprio sul finale, Clint ci lascia con un’ultima speranza…