L’amatissimo romanzo di Peter Brown viene trasformato in uno splendido film per il grande schermo, adatto a tutte le età e tra i più divertenti dell’anno.

A prima vista, Il robot selvaggio, il nuovo film della Dreamworks Animation (e una delle ultime produzioni interne dello studio), sembra puntare alla voga dell’ansia culturale per i computer senzienti e parlanti – una tecnologia progettata, per prendere in prestito le dubbie promesse di aziende come OpenAI, per sembrare sempre più simile a un essere umano.

Il robot protagonista è Rozzum Unit 7134, presumibilmente un’invenzione della Silicon Valley, se la Silicon Valley avesse cercato di aggiornare l’assistente domestico dei Jetsons, la cui consegna viene sventata da un tifone. Invece, il robot approda su una remota isola del Pacifico nord-occidentale. Il robot, doppiato in modo convincente da Lupita Nyong’o, ha l’effetto piatto di Alexa di Amazon e la mentalità puramente orientata al compito della programmazione, oltre a un pizzico di desiderio confuso sufficiente per tifare immediatamente per lei.


Il film Il robot selvaggio, scritto e diretto da Chris Sanders (Lilo & Stitch, How to Train Your Dragon), mette in atto un gioco di prestigio scaltro, coinvolgente ed estremamente efficace: più tempo trascorriamo con il robot – più la sua programmazione si addestra a nuovi input, per usare il linguaggio dell’IA generativa – più sottolinea i profondi, inarticolabili e sacri pozzi dei sentimenti umani, proprio quelli che non possono essere programmati o prodotti. Il fatto che questo film, basato sulla serie di libri di Peter Brown, lo faccia essendo anche una storia estremamente divertente e ricca di dettagli su un disadattato, in mezzo a una comunità di carismatiche creature del bosco, lo rende uno dei migliori film d’animazione dell’anno, considerato a buon diritto il candidato all’Oscar.


L’Unità Rozzum 7134 – Roz, come viene chiamata alla fine – viene accolta con comprensibile sospetto dagli abitanti pelosi dell’isola. Simile a un Transformer, con braccia metalliche, venature di luce al neon e grandi occhi antropomorfizzati, Roz non sembra né pensa come un essere vivente. La sua logica è puramente binaria – eseguire il compito, poi tornare al produttore, non è ammesso alcun fallimento – e riesce a suscitare risate e simpatia nella catena alimentare della foresta. Priva di uno scopo chiaro e ostacolata nel suo ritorno dal caos del mondo naturale, si imbatte nel possesso e nella cura di qualcosa che non capisce: un uovo d’oca solitario, il resto della famiglia schiacciato sotto di lei.


Come assistente domestica, Roz non ha alcuna concezione della cura (o delle oche), ma è molto brava nel compito da svolgere, anche se si tratta di salvare l’uovo dalla furba volpe Fink (Pedro Pascal) – un primo momento di azione in un film con diverse sequenze senza parole impressionanti e rinvigorenti. Quando il piccolo si schiude e, per le leggi della natura, identifica il primo volto che vede come sua madre, un opossum stanco del mondo (Catherine O’Hara) sottolinea drasticamente che Roz ha una nuova missione: fare il genitore. O, più precisamente, in questo mondo naturale duro ma mai rigido (l’opossum dice che è madre di sette figli, finché un suono di morso non la fa passare a sei), Roz deve insegnare al piccolo, un cucciolo di nome Brightbill (Kit Connor), a nuotare e a volare entro l’autunno, in modo che possa affrontare il viaggio verso sud e sopravvivere all’inverno.


Il percorso da seguire è chiaro, la posta in gioco alta ma mai troppo schiacciante per i giovani spettatori, ma il modo in cui Il robot selvaggio ci arriva è un sorprendente viaggio emotivo che lo lancia nel pantheon dei film d’animazione d’élite. Tutti gli elementi funzionano, dalle interpretazioni – un insieme di creature del bosco doppiate da Bill Nighy, Mark Hamill, Matt Berry e Ving Rhames – ai personaggi ben definiti, alla posta in gioco sempre più grande, quando il produttore di Roz, sospettoso dei suoi adattamenti emotivi, invia un altro robot (Stephanie Hsu) a recuperarla. Lo stile d’animazione, quando Roz comincia non solo a riconoscere e capire ma anche a fare tesoro dei sentimenti, è appropriatamente prismatico e ampio: in parte fotorealismo (la precisione delle pennellate per gli aghi di pino o la pelliccia delle lontre) e in parte impressionismo, un mondo che oscilla in modo sublime tra il naturalistico e il surreale. (L’andatura di Roz, che assume i diversi movimenti delle creature della foresta, è particolarmente suggestiva).


Sebbene Pascal, nel ruolo del sardonico uomo d’onore che risponde agli 1 e agli 0 e all’allegria aziendale di Roz, sia l’ammaliatore più facile, la Nyong’o fornisce la voce recitante essenziale del film, con la sua interpretazione che cambia man mano che Roz inizia a comprendere le emozioni, sperimentando un comprensibile sconcerto per i propri strani attaccamenti. È un’interpretazione abile e difficile che dà i suoi frutti nella sezione finale del film, un po’ affrettata, che alza la posta in gioco fino a livelli quasi esistenziali, quando gli umani (fuori campo) inviano altri robot a recuperare Roz, con risultati devastanti, anche se rapidamente superabili, per l’ecosistema che abbiamo imparato ad amare.


Intelligente, sentito e spesso sorprendente, Il robot selvaggio offre il tipo di intrattenimento animato adatto a tutte le età, che piacerà ai bambini e lascerà un groppo in gola. E mantiene la promessa di un vero grande film d’animazione: esprimere verità universali – l’amore che sfida la logica, i sentimenti che provengono da luoghi che non comprendiamo, il patto dolceamaro di lasciare andare qualcuno per farlo prosperare – attraverso l’inorganico. Se solo tutte le storie di robot avessero questa grandiosa visione umanistica.

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