Il meticoloso e lungo dramma di Brady Corbet è incentrato su un architetto ungherese nell’America degli anni ’40.
Si può scherzare sul fatto che la cosa più brutale di The Brutalist di Brady Corbet sia la sua formidabile durata. A parte questo fattore di intransigenza, non c’è nulla di specificamente brutale nell’esecuzione o nel contenuto del dramma di Corbet, il cui titolo si riferisce allo stile architettonico praticato dall’eroe del film, un architetto ebreo di origine ungherese che emigra negli Stati Uniti nel 1947. The Monumentalist sarebbe stato un titolo migliore, sicuramente per quanto riguarda l’ambizione del regista-sceneggiatore, ferocemente individuale, un dissidente tra i cineasti americani, la cui fedeltà è principalmente alla tradizione europea più rigorosa.
Un labirinto drammatico
Al suo terzo lungometraggio, dopo The Childhood Of A Leader e il dramma pop Vox Lux, provocatoriamente sconvolgente , Corbet ha adottato un tono più americano, mescolando l’ampiezza di Kubrick o Paul Thomas Anderson con il tenore mitologico di The Fountainhead. Girato in VistaVision con uno sfarzo sfacciatamente anacronistico,The Brutalist è decisamente una costruzione a sé stante, ma le lungaggini e l’inerzia narrativa non ne fanno la dichiarazione eclatante che aspira ad essere. Nonostante un cast formidabile, guidato da Adrien Brody e da un impressionante Guy Pearce, è probabile che questo film attiri pochi pellegrini, anche tra gli appassionati di cinema d’essai.
Con una sceneggiatura di Corbet e Mona Fastvold (Il mondo che verrà) intrisa di conoscenze architettoniche e di storia dell’Europa moderna, il film ripercorre i progressi dell’immigrato ebreo ungherese Laszlo Toth (Brody), un architetto Bauhaus che arriva negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale e cerca di rilanciare la sua carriera in attesa dell’arrivo della moglie Erszebet (Felicity Jones). Il film inizia con un’intensa raffica di azioni a malapena leggibili in una sola ripresa (si sospetta una punta di cappello allo stile visivo radicale del regista di Son Of Saul, Laszlo Nemes), che termina con la visione di una Statua della Libertà capovolta – stabilendo il tema di un’America che confonde coloro che apparentemente accoglie.
Un altro tema chiave è che non ci si può fidare dei sorridenti benefattori dell’establishment. Toth e il suo cugino completamente americanizzato (Alessandro Nivola) ottengono da un erede viziato (Joe Alwyn) l’incarico di costruire una biblioteca per suo padre, Harrison van Buren (Guy Pearce), ma il progetto finisce in un disastro. In seguito, però, van Buren salva Toth dai tempi duri commissionandogli un edificio spettacolare in onore dell’adorata madre. A questo punto diventa evidente che l’ambizione visionaria di Toth potrebbe portarlo sulla strada della follia.
Girato con uno sfarzo sfacciatamente anacronistico nel sacro formato VistaVision, The Brutalist è in effetti un monumento a sé stante – un labirinto drammatico, con un intervallo di 15 minuti inserito al centro – e con una magnificenza visiva che, pur essendo sontuosa, aderisce a un’austerità essenziale che Toth approverebbe. La fotografia di Lol Crawley e gli imponenti disegni di Judy Becker rendono questo film qualcosa da ammirare visivamente, non da ultimo in una sequenza davvero allucinante nelle cave di marmo di Carrara.
I difetti drammatici, tuttavia, sono ineludibili. Parte del problema è che le lotte prometeiche di Toth non sono di per sé così coinvolgenti, anche se è difficile resistere all’idea di interpretare il film come un’allegoria della difficoltà di fare cinema d’autore di fronte alle interferenze dei finanziatori. E la relazione tra Toth ed Erszebet, una volta che lei arriva, non è mai al centro della scena, in parte a causa di un ruolo poco sviluppato della Jones (che, assolutamente giovane e fresca, non ci convince mai che il suo personaggio abbia vissuto l’inferno dei campi europei). Brody – il suo perma-angoscia smorzato fa pensare a una versione potenziata del suo personaggio ne Il pianista – non riesce mai a rendere Toth simpatico o, cosa più importante, caratteristico. Un Pearce dalla faccia liscia, invece, domina completamente ogni scena in cui si trova, nei panni di un patriarca carismatico con un prevedibile lato oscuro.
La colonna sonora minacciosa e propulsiva di Daniel Blumberg è molto in linea con la firma che Corbet ha stabilito finora, così come i titoli di testa, in stile costruttivista. Il film è sicuramente da ammirare, ma ciò che lo rende difficile da amare è la sua mancanza di un certo approccio umano e, cosa più dannosa, di qualsiasi accenno di umorismo.