Il monumentale adattamento di Denis Villeneuve espande il suo straordinario mondo di scintillante stranezza. È impossibile immaginare che qualcuno possa farlo meglio di lui.
La seconda parte del monumentale adattamento di Dune di Denis Villeneuve atterra con uno schianto che fa rabbrividire; è un altro film riuscito male, un’epica allucinazione fantascientifica le cui immagini parlano di fascismo e imperialismo, di resistenza alla guerriglia e romanticismo. L’adattamento di Villeneuve del romanzo di Frank Herbert del 1965 – in collaborazione con il co-sceneggiatore Jon Spaihts – si ispira a David Lean, George Lucas e Il Gladiatore di Ridley Scott nella (forse inevitabile) scena del combattimento nel mega-stadio con i piccoli miliardi di folla in CGI sulle gradinate. Ma il regista lo ha reso davvero tutto suo: la crudeltà politica secolare incontra la lotta degli indigeni in quei vasti e misteriosi paesaggi planetari. Il sound design pulsa e ronza nel flusso sanguigno di questo film, conferendo un brivido inquietante al suo straordinario spettacolo visivo che sembra governare così tanto lo stile intergalattico-errante.
La mia unica riserva è che un po’ dello slancio che la prima parte aveva accumulato è andato perso da quando il film è uscito più di due anni fa. Chi non fa parte dei fan di Dune potrebbe ritenere che il finale non fornisca la chiusura clamorosa a cui tutti noi, forse ingenuamente, ci consideriamo autorizzati alla fine di 330 minuti di schermo. E gli ultimi momenti movimentati del film sembrano un po’ affrettati, come se Shakespeare avesse deciso di ridurre la Parte III dell’Enrico VI a una coda di zapping da inserire alla fine della Parte II.
Tutto ciò non intacca l’estro del film e il suo sbalorditivo spettacolo. Iniziamo con un’altra straordinaria e surreale scena di battaglia nel deserto, con i dettagli tecnologici inventati che sono così imponenti e decisamente spaventosi, come se stessimo assistendo a uno sviluppo evolutivo post-umano. I tocchi di design caratteristici sono presentati con assoluta sicurezza; in qualsiasi altro film, quei tubi nasali neri sembrerebbero strani, soprattutto quando si prevede che i due protagonisti si bacino mentre li indossano. Qui lo si accetta.
Siamo sul pianeta Arrakis, con la sua lucrosissima risorsa mineraria della Spezia, sotto il dominio orrendamente corrotto degli Harkonnen, che hanno messo in atto un duplice colpo di stato contro la famiglia Atreides, alla quale l’imperatore aveva assegnato i diritti di amministrazione. Gli Harkonnen sono il macabro Barone (Stellan Skarsgård) e i suoi inquietanti nipoti Bestia Rabban (Dave Bautista) e l’ancor più inquietante Feyd-Rautha, interpretato da Austin Butler. Il carismatico Paul (Timothée Chalamet) combatte ancora valorosamente con l’insurrezione Fremen, è innamorato di Chani (Zendaya) e viene considerato dal guerriero Stilgar (Javier Bardem) il loro messia. Ma anche Jessica (Rebecca Ferguson), la madre di Paul, appartenente alla confraternita occulta delle Bene Gesserit, è con lui, prendendo il suo posto nella struttura di potere dei Fremen. Si avvicina la grande resa dei conti tra i Fremen e gli Harkonnen, e tra Paul e l’Imperatore e sua figlia, la Principessa Irulan; questi ultimi sono ruoli un po’ secondari per Christopher Walken e Florence Pugh.
È un panorama di scintillante stranezza, ora ampliato da un cast più numeroso, con Léa Seydoux in forma classicamente felina e insinuante nei panni dell’iniziata Bene Gesserit Lady Margot Fenring e un piccolo cameo quasi subliminale di Anya Taylor-Joy. Come in precedenza, il secondo film di Dune è superbo nel mostrarci un intero mondo creato, un universo distinto e ormai inconfondibile, che probabilmente sarà molto imitato: un trionfo per il direttore della fotografia Greig Fraser e il production designer Patrice Vermette. La colonna sonora di Hans Zimmer fornisce esattamente il tono giusto, allo stesso tempo plangente e grandioso.
Villeneuve dimostra una tale ambizione e audacia e un vero linguaggio cinematografico. Ma non posso fare a meno di pensare che, anche se è impossibile immaginare che qualcuno faccia Dune meglio – o in qualsiasi altro modo – in qualche modo non è riuscito a far girare le braccia intorno alla storia vera e propria in un film gigantesco e autonomo come ha fatto con il suo sorprendente Blade Runner 2049. Non c’è dubbio che Chalamet sia il protagonista di un film d’azione romantico con grande stile, anche se c’è così tanto in ballo, con così tanti altri personaggi, che il suo eroismo e la sua storia d’amore con Chani vengono sminuiti. Ma questa è una vera epopea ed è esaltante trovare un regista che pensa così in grande.