NESSUN uomo è un eroe per il suo valletto. Così si dice, o si diceva, visto che oggi pochi uomini hanno un valletto. Ma moltissime persone, uomini e donne, eroiche almeno secondo la loro opinione, hanno assistenti che si affannano a prendere il caffè e a lavare i panni, sopportano scatti d’ira, si crogiolano in piccoli barlumi di generosità e sognano, per lunghe ore a basso salario, di vendicarsi. Per le legioni che hanno subito il capriccio e la crudeltà di un capo tirannico, “Il diavolo veste Prada”, il best-seller di Lauren Weisberger che racconta il breve periodo di servitù di una giovane donna brillante presso una rivista di moda, offre la soddisfazione di una vendetta vicaria. Il ritratto di Miranda Priestly, l’imperiosa direttrice di un giornale patinato chiamato Runway, è un collage di offese e rancori non perdonati, incollati sulla pagina con puro e giusto veleno.
La morale della signora Weisberger era semplice e difficile da contestare: Nessuno, per quanto glamour, di successo o celebrato, ha il diritto di trattare un’altra persona nel modo in cui Miranda tratta i suoi assistenti, in particolare il narratore, uno zelante Ivy Leaguer di nome Andy (abbreviazione di Andrea) Sachs. Ma da quando “Il diavolo veste Prada” è diventato un film, con Anne Hathaway nel ruolo di Andy, la lezione non è più così inequivocabile.
La sceneggiatrice, Aline Brosh McKenna, e il regista, David Frankel, hanno reimmaginato alcuni personaggi, scartato alcuni sviluppi della trama e ne hanno impiantati altri, e cambiato l’università di Andy dalla Brown alla Northwestern. Quando questi specialisti riuniscono un gruppo di esperti per discutere le loro scoperte, è probabile che emerga un vigoroso dibattito. Il film, soprattutto nel modo in cui immagina Miranda, tradisce il romanzo o lo corregge?
La Miranda letteraria è un mostro. La Weisberger, limitandosi al punto di vista di Andy e dando senza dubbio voce alla sua avversione per l’editore reale su cui Miranda è modellata, ha resistito alla tentazione di rendere la sua cattiva un personaggio complesso (o anche terribilmente interessante). Ma la Miranda dello schermo è interpretata da Meryl Streep, un’attrice che porta le sfumature in ogni suo poro e che conferisce anche ai suoi ruoli comici e leggeri una ricca implicazione di vita interiore. Con i suoi capelli d’argento e la sua pelle pallida, la sua dizione sussurrata e perfetta come la sua postura, la Miranda di Meryl Streep ispira terrore e allo stesso tempo una certa dose di soggezione. Non è più solo l’incarnazione del male, ma una visione di grazia aristocratica, risoluta e sorprendentemente umana.
E il film, pur notando che può essere sadica, sconsiderata e manipolatrice, è inequivocabilmente dalla parte di Miranda. Come potrebbe essere altrimenti? A Hollywood, per esempio, un’assistente maltrattata è, come una Toyota Prius, un accessorio indispensabile – un diritto, in realtà – per chiunque voglia sembrare potente.
E mentre il film compie alcuni gesti di compassione nei confronti dei subalterni, non si spinge troppo in là nell’ipocrisia di classe. Al contrario. Si tratta di un film inequivocabilmente, o forse semi-apologeticamente, affascinato dal potere. I mondi dell’alta moda e del giornalismo di facciata, che fanno da sfondo alla favola gotica dell’innocenza prigioniera della Weisberger, sono qui esposti per una delizia consapevole e feticista.
In questa versione, il brivido vicario non è la rivincita, ma piuttosto il consumo vistoso: tutti quegli abiti e accessori amorevolmente fotografati, quei magazzini di Chanel e Jimmy Choo, quelle donne magre addobbate (dall’instancabile inventiva di Patricia Field) in abiti costosi. “Il diavolo veste Prada” fa esattamente quello che le controparti reali della rivista Runway fanno ogni mese, cioè consegnare agli occhi avidi delle masse i beni più sontuosi che si possano immaginare – o comunque immagini di fantasia di essi.
E perché no? Frankel, che ha diretto molti episodi di “Sex and the City”, sa come infondere in uno spettacolo di raffinatezza ed esclusività un sentimento di democratico buonumore. Lui e la signora McKenna sanno anche come prendere in giro senza sogghignare e come riconoscere che la moda è un affare serio senza prenderla troppo sul serio.
Diverse scene, accuratamente inscenate e scritte in modo preciso, difendono Miranda su basi femministe. Altri momenti rivelano la sua vulnerabilità, e di tanto in tanto si sottrae alla sua routine quotidiana di diffondere paura e ansia ovunque vada per rivolgere sguardi significativi e comprensivi in direzione di Andy. Spiega anche che, sebbene il suo regno dell’alta moda possa sembrare un luogo superficiale e banale, è anche un dominio in cui potere, denaro e arte si mescolano per influenzare le scelte e le aspirazioni delle donne di tutto il mondo.
Andy può pensare che il suo maglione blu a maglia a coste sia un emblema di virtù, un segno che non può essere disturbata dalle ossessioni superficiali che guidano Runway, ma Miranda insiste sul contrario, e il film sostiene la sua opinione. Ulteriori tributi al genio di Miranda – e alla gloriosa tradizione giornalistica che rappresenta – sono offerti da Nigel (Stanley Tucci), il suo fedele luogotenente, che diventa amico e protettore di Andy.
Quel terribile maglione viene presto sostituito da una serie di gloriosi ensemble presentati in una delle tante sequenze di montaggio vorticose e senza respiro, che sottolineano il fatto che gli abiti favolosi sono, beh, favolosi. E chi può contestare? Alcune persone ci provano, in particolare il fidanzato di Andy, Nate (Adrian Grenier), un aspirante chef che di tanto in tanto si fa vedere per ricordarle che sta perdendo di vista le cose che contano davvero. Dillo a Gourmet, amico.
Il signor Grenier, che incarna senza sforzo l’edonismo superficiale della cultura delle celebrità ogni domenica sera in “Entourage”, non è forse il più adatto a dare lezioni sulla definitiva inutilità della moda e della fama. E in ogni caso a Nate non sembra dispiacere la lingerie sexy che Andy porta a casa dall’ufficio.
Le scene in cui Andy viene avvertita che si sta allontanando dai suoi valori di ragazza per bene e con i piedi per terra sono inconsistenti fino all’insincerità. E la signora Hathaway, anche rifatta con frangetta lucida, trucco impeccabile e calzature che stringono le dita dei piedi, non è neanche lontanamente interessante da guardare come il signor Tucci, che non è mai stato così bravo, o la signora Streep, il cui perfezionismo raramente è sembrato così azzeccato. Inoltre, la Hathaway non regge il confronto con Emily Blunt, l’attrice britannica la cui interpretazione di Emily, l’assistente anziana di Miranda e rivale di Andy in ufficio, è un piccolo tour de force di sorridente ostilità.
La Hathaway si scrolla di dosso l’insipidezza solo verso la fine, quando, in un viaggio culminante a Parigi, Andy si avvicina pericolosamente alla fredda fiamma del suo capo e dove il suo flirt intermittente con un affascinante scrittore di riviste (Simon Baker) si fa più intenso. Ma per la maggior parte del film Andy è un personaggio cifrato, la cui funzione è quella di avvicinarci a Miranda, il diavolo che, dopo tutto, non vediamo l’ora di conoscere. Al cinema nessun valletto può essere un eroe. E ne “Il diavolo veste Prada” si scopre che la vendetta appartiene a Miranda Priestly.
Il diavolo veste Prada
Regia di David Frankel;
sceneggiatura di Aline Brosh McKenna,
basata sul romanzo di Lauren Weisberger;
direttore della fotografia, Florian Ballhaus;
montaggio di Mark Livolsi;
musiche di Theodore Shapiro;
scenografo, Jess Gonchor;
costumista, Patricia Field;
produzione di Wendy Finerman;
distribuito dalla 20th Century Fox. Durata: 106 minuti.
Interpreti:
Meryl Streep (Miranda Priestly),
Anne Hathaway (Andy Sachs),
Stanley Tucci (Nigel),
Emily Blunt (Emily),
Simon Baker (Christian Thompson)
Adrian Grenier (Nate).