Per quello che riguarda la comicità Italiana troppe dichiarazioni sono state azzardate nel definire i protagonisti di un genere ormai vecchio e stantio.
Come accadde per Siani troppo presto e troppo superficialmente definito addirittura il nuovo Troisi anche per Pieraccioni prima di paragonarlo a Nuti ne deve fare di strada e avere nuove idee come le ebbe con ‘Il ciclone’ ma da lì in poi solo poche idee e per niente innovative.
L’ultima fatica di Leonardo Pieraccioni parte da uno spunto piuttosto interessante. Il comico toscano prende in prestito la reale storia di due fratelli che nel 1982 fecero credere all’anziano padre ipovedente di aver fatto un viaggio a Parigi senza in realtà uscire da Siena, ma decide di riadattarla per poterla piegare alle proprie esigenze.
Ecco quindi che i due fratelli, Michele e Gianni Bugli, nella finzione filmica diventano un fratello, Bernardo (lo stesso Pieraccioni), e due sorelle, Giovanna e Ivana (rispettivamente Chiara Francini e Giulia Bevilacqua).
Come nella migliore tradizione delle commedie famigliari, il rapporto tra il padre e i figli è incrinato e questo viaggio-farsa darà loro la possibilità di far emergere i vari problemi sopiti, riscoprire sè stessi e riconciliarsi tra loro.
Nel calderone abbiamo quindi buoni sentimenti, una bugia da tenere in piedi e una distanza dai fatti storici che permette di dare sfogo alla propria creatività. Gli elementi per una commedia frizzante ci sono tutti. Basta solo saperli sfruttare.
Peccato che a questo film manchi totalmente la capacità di farlo.
Pare parecchio Parigi è un film prima di tutto senza inventiva, con battute estremamente scialbe e spesso prevedibili.
La pigrizia si vede soprattutto nella parte più farsesca del film, con i protagonisti a cui basta ricorrere a espedienti veramente scarni per ingannare il padre. Ogni elemento esterno e ignaro che potrebbe (anzi, in questo genere di prodotti dovrebbe) dare vita a soluzioni comicamente arzigogolate per tenere in piedi l’inganno si risolve con una facilità sconcertante.
Ma dove il film mostra prima di tutto la stanchezza del proprio autore è nel modo in cui queste trovate (già scarne di loro) vengono portate su schermo.
Ha un ritmo spento, con un quartetto di attori protagonisti che non sembrano ben amalgamati; escludendo una scena di flashback (che porta a un colpo di scena tanto prevedibile quanto poco impattante per l’economia del film) in cui non si può fare a meno di chiedersi quanto sarebbe stato bello assistere a quella chimica attoriale per tutto il resto della visione.
Non solo sfrutta con il contagocce le proprie potenzialità comiche, ma anche la crescita dei propri personaggi. Lo schema è identico per tutti e tre i figli: viene introdotto il problema psicologico, vengono gettate le basi per la sua risoluzione, che poi non vediamo concretizzarsi. Esemplare in tal senso la gestione del personaggio di una delle sorelle che tratta una tematica piuttosto delicata nella nostra contemporaneità.
Pieraccioni mostra infatti una chiara volontà di infarcire il proprio lavoro di messaggi e tematiche sociali molto in voga nel nostro dibattito pubblico senza svilupparle in maniera organica.
Si avverte infine una amara ironia nella didascalia finale che, oltre a dichiarare l’origine dell’idea del film, vorrebbe lodare i sognatori. Ma è il film stesso che non sogna e non fa sognare.