Recensione dei primi due episodi

L’ampio riassunto dei prequel di “Star Wars” che apre la nuova serie di “Obi-Wan Kenobi” è tanto utile quanto astuto. Da un lato, serve a ricordare le basi della trama che hanno portato a questo momento del franchise, con lo sbiadito Jedi di Ewan McGregor che, a malincuore, recupera la sua vecchia spada laser 10 anni dopo che Anakin Skywalker è passato al Lato Oscuro. Dall’altro, una ripresa così concentrata di quei film di vent’anni fa serve a ricordare la loro infamia, quanto è successo da allora nella galassia in continua espansione della Lucasfilm e perché “Obi-Wan Kenobi” rappresenta un’opportunità unica al suo interno. Per quanti progetti di “Star Wars” siano in fase di sviluppo, i personaggi e la mitologia di questa serie sono i più direttamente legati alla storia originale che ha lanciato un migliaio di caccia stellari, rendendo questo show un ponte tra una trilogia e l’altra.

Nei primi due episodi, trasmessi il 27 maggio su Disney+, “Obi-Wan Kenobi” prende spunto dal libro de “Gli ultimi Jedi”. In primo luogo, viene ricordato brevemente il massacro della scuola Jedi che ha dato il via alla devoluzione di Anakin in Darth Vader. La serie salta poi in avanti di un decennio per ritrovare Ben, l’esausto uomo precedentemente conosciuto come Obi-Wan, che lavora anonimamente in una catena di montaggio su Tatooine. Come accadrà a Luke Skywalker anni dopo, l’autoflagellazione di Ben ha preso la forma di una vita di solitudine (anche se con una barba che gli si addice, per quanto tenga il broncio). Con i Jedi ufficialmente in via di estinzione e i gemelli di Anakin, Luke e Leia, al sicuro in nuove famiglie lontane dal loro padre squilibrato, Ben si è convinto di non poter fare più nulla – o, più precisamente, di non dover fare più nulla, visto che la sua missione di mentore per Anakin è finita in modo catastrofico.

La resistenza di Ben a usare di nuovo i suoi poteri Jedi a fin di bene è volutamente frustrante durante i ripetuti cicli di qualcuno che non riesce a convincerlo del contrario, sia che si tratti di un senatore di Alderaan (un Jimmy Smits che ritorna) o di un altro Jedi fuggitivo (il regista Benny Safdie, una delle numerose guest star di “Obi-Wan” che sta chiaramente vivendo una fantasia infantile di giocare nella sandbox di “Star Wars”). È quindi un bene che McGregor abbia abbastanza carisma come attore da rendere avvincente la scontrosità di Ben, accennando al senso di colpa e all’inquietudine che ribollono dietro i suoi occhi spenti.

Aiuta anche il fatto che “Obi-Wan Kenobi” prenda una svolta rispetto al percorso forse più scontato di Ben che tiene d’occhio il decenne Luke (Grant Feely) e il suo diffidente zio guardiano, Owen (Joel Edgerton, che segue Smits riprendendo il suo ruolo dai prequel). Invece, il primo episodio si divide tra Tatooine e Alderaan, dove Leia (Vivien Lyra Blair), la gemella scapestrata di Luke, fa del suo meglio per rendere più interessante la vita da principessa. Improvvisamente, la serie non riguarda solo il grande ritorno di Obi-Wan, ma anche le origini di una certa Leia Organa.

In una delle interazioni più significative dell’episodio, Ben insiste con il senatore Organa che il suo dovere è verso Luke, al che Organa risponde semplicemente: “Lei è importante quanto lui”. Per anni, nell’universo di “Star Wars”, l’arco dell’eroe di Luke ha sminuito l’importanza di Leia come figlia Jedi di Darth Vader; ora, questa serie sta facendo del suo meglio per ripristinare la situazione raccontando anche la sua storia. La Blair gestisce le sue battute precoci con grande maestria, soprattutto perché la serie dà a lei e a McGregor più spazio per far rimbalzare l’uno sull’altro la giocosità di Leia e l’irritazione di Ben. E così, alla fine del secondo episodio, “Obi-Wan Kenobi” prepara il terreno per diventare il proprio gioco sulla dinamica de “I Mandaloriani”, in cui un formidabile guerriero si fa carico con riluttanza di una giovane carica dotata che inevitabilmente lo affascinerà per sottometterlo lealmente.

È un sollievo quando Ben inizia finalmente ad abbandonare la sua determinazione a rimanere nascosto, anche perché questo significa esplorare i pianeti oltre Tatooine. Gli scorci del dominio imperiale che ha invaso la galassia negli anni successivi alla caduta di Anakin portano anche gli “Inquisitori”, una brigata incaricata di dare la caccia e sterminare i Jedi. Rupert Friend e Sung Kang, con i volti pesantemente truccati, interpretano gli Inquisitori con maggiore potere gerarchico, ma è Moses Ingram il cui personaggio ha il peso emotivo maggiore nella sua infernale ricerca dell’inafferrabile Obi-Wan Kenobi. Ingram, che ha dato molto di più al suo personaggio di “Queen’s Gambit” di quanto non esistesse sulla pagina, coglie l’opportunità di creare il tipo di cattiva fusa e spocchiosa di cui sono fatti i sogni di “Guerre stellari”, anche se non riesce a superare la smielatezza delle sue sequenze d’azione. Per quanto la regista Deborah Chow (ex allieva di “Mandalorian”) sia brava a trovare fette di commozione e umorismo nei momenti più dialogati, la maggior parte delle scene di combattimento opta per un’impostazione più elementare che per un’abile sovversione.

A differenza di molte altre serie di “Star Wars”, però, questa non ha bisogno di sforzarsi troppo per affermarsi come qualcosa di diverso. Nel raccontare le storie delle stelle più famose della galassia, “Obi-Wan Kenobi” deve solo mettere un piede davanti all’altro, gettare i semi di ciò che verrà e avere abbastanza consapevolezza di sé da conoscere sia i propri limiti che ciò che il pubblico vuole da questi personaggi. Almeno su questi fronti, la serie sembra essere sulla buona strada.

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